Tra l'opera poetica di Octavio Paz (1914) e i suoi numerosissimi testi saggistici - di critica letteraria, di arte, di costume, di storia e di politica e di altri argomenti - esiste da sempre un legame strettissimo, una reciprocità assidua anche di toni e di accenti, una osmosi sostanziosa e continua, anzi incessante. Una simile o eguale constatazione troviamo trascritta e poi ripetuta fino alla sazietà da Octavio Paz in prima persona, e la vediamo sostenuta o ripresa, prima e dopo il Nobel del 1990, con uguale e forse con maggiore insistenza dai suoi stessi critici e commentatori. Ma sebbene tante volte replicata, essa va qui ripresa e ancora messa a fuoco, perché proprio lì si riconosce il nodo principale che ci permette di leggere con aderenza la sua poesia e il resto dei prodotti del suo ingegno: visto che persino quando scrive in prosa, di crìtica o di ricerca, Paz pensa e concepisce da poeta o già accenna o sfiora motivi che si risolveranno felicemente in versi.
Una delle forme con le quali si esprime cotesta qualità essenziale, semplice e tangibile riposa nel fatto che, a suo giudizio, l'immaginazione contiene di per sé una potenzialità sconfinata, indocile ed estrosa; e che, d'altra parte, il mondo reale sembra presentarsi a noi umani, esattamente e soltanto per essere ascoltato e rovistato in maniera sconfinata, indocile ed estrosa. In altre parole: così come si offre all'intelligenza e alla fantasia, lo spettacolo del reale è una pagina aperta ma insieme un cruccio o un enigma per lo scrittore, vuoi allorché esso dona corpo e anima alla sua poesia vuoi quando è pretesto che ne stimola la meditazione. La parola è insomma, allo stesso tempo, per Paz, sorgente e matrice di qualsivoglia attività espressiva, ora creativa ora critica. (Dario Puccini)